Di Anna Bono
Sono saliti a otto gli stati africani in cui si
registrano casi di COVID-19. La situazione più preoccupante è attualmente
quella della popolosa Nigeria e del Senegal. Fra le istituzioni in prima linea
si annovera senza dubbio la Chiesa. Le Messe non sono sospese e anzi servono
anche a diffondere informazione sanitaria.
Sono saliti a otto gli stati africani in cui si
registrano casi di COVID-19. Dopo l’Egitto il 14 e l’Algeria il 25 febbraio, è
stata la volta della Nigeria il 27 febbraio. Successivamente altri casi sono
stati individuati in Tunisia, Marocco, Senegal, Sudafrica, Camerun e Togo.
Le situazioni più preoccupanti sono al momento quelle
della Nigeria, perché è l’unico paese africano insieme al Rwanda che presenta
una elevata densità demografica, e del Senegal, perché i casi sono saliti a
quattro in poche ore. Tutto il continente però è in stato di allerta e si sta
preparando all’eventualità di una epidemia. Più che i governi, a mobilitarsi
dall’inizio della crisi per prevenire la diffusione del virus e ad attrezzarsi
per affrontarlo, sono, come di consueto, gli organismi che in tutto il
continente rimediano per quanto possibile alle enormi, deplorevoli carenze dei
sistemi sanitari nazionali, sia in tempi normali sia all’insorgere di crisi
sanitarie. C’è prima di tutto l’Oms, Organizzazione mondiale della sanità, che
da sempre, affiancata da altre agenzie delle Nazioni Unite, si incarica delle
campagne di vaccinazione che salvano la vita a decine di milioni di persone e
interviene quando si verifica una emergenza. In dieci anni ha gestito tre
epidemie di Ebola: l’ultima, nell’est della Repubblica democratica del Congo,
particolarmente insidiosa, scoppiata nell’agosto del 2018. È notizia recente
che forse anche questa battaglia è stata vinta. Il 3 marzo infatti è stato
dimesso l’ultimo ammalato. Se per i prossimi 42 giorni, il doppio di quelli di
incubazione del virus, non si registreranno nuovi casi, l’Oms dichiarerà
conclusa l’epidemia.
Al fianco dell’Oms combattono quotidianamente per
la vita degli africani migliaia di organizzazioni non governative finanziate in
gran parte, come l’Oms stessa, con fondi pubblici e privati provenienti da
altri continenti. Inestimabile, dal 1971, è il contributo di Medici senza
frontiere che, come l’agenzia Onu, è in grado di allestire in pochi giorni, in
certi casi in poche ore, presidi sanitari attrezzati e autosufficienti anche
nelle regioni più remote, difficilmente raggiungibili e prive di
infrastrutture.
Infine, ma è il caso di dire last but not
least, alla salute degli africani, sostituendosi ai governi del continente,
provvedono le Chiese, i missionari, le associazioni di ispirazione cristiana
diffusi su tutto il territorio africano: una presenza capillare,
indispensabile, vitale.
È stato il Lacor Hospital di Gulu, nel nord
dell’Uganda, fondato nel 1959 da un istituto missionario, a dimostrare che c’è
speranza per chi si ammala di Ebola. Durante l’epidemia del 2000, mentre nel
vicino ospedale governativo il tasso di mortalità sfiorava il 70%, al Lacor è
stato inferiore al 40% grazie alla dedizione del personale medico e paramedico
cattolico e anglicano, guidato dal dottor Matthew Lukwiya che, insieme a 14
altri dipendenti dell’ospedale, ha dato la vita per assistere e curare i malati
senza lasciare niente di intentato.