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Obbedienza e resistenza nella storia e nella dottrina della Chiesa

Quando san Tommaso pone la questione “se i sudditi sono tenuti a ubbidire in tutto ai loro superiori”, la sua risposta è negativa. I motivi per cui un suddito può non essere tenuto a ubbidire in tutto al proprio superiore, spiega il Dottore Angelico, sono due. Eccoli.
del prof. Roberto de Mattei (18-05-2018)
Parlare di resistenza nella storia e nella dottrina cattolica non significa in alcun modo fare l’apologia della disobbedienza e della ribellione. Al contrario io farò l’apologia dell’obbedienza. E’ dalla virtù dell’obbedienza, non dalla disobbedienza, che discende la liceità della resistenza cattolica alle autorità familiari, politiche e religiose, quando esse violano la legge divina e naturale.
Questa premessa è necessaria, perché dobbiamo evitare il pericolo di assumere un atteggiamento psicologico di contestazione verso l’autorità, che non ha nulla a che fare con la fede e con la morale cattolica.
La virtù morale dell’obbedienza
Quando si parla di obbedienza si pensa generalmente al voto che fanno i religiosi, il voto più difficile da mantenere e quindi il più perfetto dei tre, perché sacrifica quello che è più importante, la propria volontà. Ma l’obbedienza, prima di essere un voto, è una virtù morale. San Tommaso definisce l’obbedienza come la virtù morale che rende la volontà pronta ad eseguire i precetti dei superiori. Ubbidendo ai legittimi superiori, noi ubbidiamo a Dio, perché ogni potestà viene da lui (Rom. 13, 1). L’obbedienza, dunque, come tutte le virtù, ha un fondamento divino e non umano.
La virtù morale dell’obbedienza discende dal Decalogo. Il quarto comandamento ci dice: onora il padre e la madre. La famiglia è il primo luogo in cui l’essere umano impara il valore dell’obbedienza. Il quarto comandamento contiene il dovere di ubbidire non solo ai propri genitori, ma ad ogni autorità, in quanto espressione della Volontà di Dio che, come spiega san Tommaso, è la prima regola dell’ordine per tutte le volontà create.

Questo comandamento, che impone di prestare obbedienza alle legittima autorità e alle legittime leggi, in quanto espressione della legge naturale, è universale e assoluto, come il quinto comandamento che dice non uccidere o il sesto che dice non commettere atti impuri.
Ma l’obbedienza ha anche un fondamento soprannaturale ed è la regola della vita spirituale di ogni cristiano.
San Paolo dice che Gesù Cristo fu “obbediente fino alla morte, alla morte di Croce! (Fil. 2, 8)”. I santi, seguendo l’esempio del Divino Maestro, nel rispetto della legge divina, non si sono limitati a obbedire alle autorità: hanno cercato di obbedire alla volontà degli altri, rinunciando alla propria. Beato colui che non fa mai la propria volontà, ma sempre e solo quella degli altri, che essi siano i propri genitori, i propri superiori, il proprio marito e la propria moglie, e persino il prossimo che incontriamo e che dobbiamo amare come noi stessi, secondo un ordine della carità che lo stesso san Tommaso definisce nella Summa.
Il contrario dell’obbedienza è l’affermazione disordinata del proprio io, l’egoismo, la ricerca di sé stessi e della propria volontà, che ci conduce al peccato. Il peccato è sempre innanzitutto una disobbedienza. Perciò san Paolo dice che “per la disobbedienza di uno solo, l’intero genere umano divenne peccatore” (Rom, 5, 19). La società cristiana è una società regolata dall’obbedienza e vivificata dall’amore di Dio e del prossimo.
La società diabolica è la società del disordine e della disobbedienza. Osserva Juan Donoso Cortés: “Se il peccato altro non è che la disobbedienza e la ribellione, e se la disobbedienza e la ribellione non sono che il disordine, e il disordine è il male, ne consegue che il male, il disordine, la ribellione, la disobbedienza e il peccato sono cose nelle quali la ragione riscontra una identità assoluta, allo stesso modo per cui il bene, l’ordine, la sottomissione e l’obbedienza sono cose nelle quali la ragione riscontra una completa somiglianza. Scaturisce da ciò la conclusione che la subordinazione alla volontà divina costituisce il sommo bene, mentre il peccato è il male per eccellenza”.
I sudditi sono tenuti a ubbidire in tutto ai loro superiori?
Il principio secondo cui l’obbedienza è dovuta ai superiori perché rappresentano l’autorità stessa di Dio ha importanti conseguenze. I nostri superiori, nell’ordine familiare, politico ed ecclesiastico, rappresentano l’autorità in quanto rispettano e fanno rispettare la legge divina. Questa legge divina non è tale perché il superiore ce la impone, ma perché ha in sé stessa, ovvero in Dio che ne è l’autore, il suo fondamento. Chi ha l’autorità, dice san Paolo, è “ministro di Dio per fare il bene (Rm, 13, 4)”. Però l’amore alla volontà di Dio ci può spingere a rifiutare quelle autorità e quelle leggi che rifiutano Dio e che, rifiutandolo, pregiudicano la sua gloria e mettono in pericolo le anime.
Perciò, quando san Tommaso pone la questione “se i sudditi sono tenuti a ubbidire in tutto ai loro superiori”, la sua risposta è negativa.
I motivi per cui un suddito può non essere tenuto a ubbidire in tutto al proprio superiore, spiega il Dottore Angelico, sono due.
Primo. Per il comando di un’autorità più grande, perché bisogna rispettare la scala gerarchica delle autorità.
Secondo. Se il superiore comanda al suddito delle cose illecite. L’esempio è quello dei figli che non sono tenuti a ubbidire ai genitori quando si tratta di contrarre il matrimonio, o di custodire la verginità o altre cose del genere.
San Tommaso conclude: “A Dio l’uomo è soggetto in modo assoluto, e in tutte le cose, sia interne che esterne: per cui è tenuto a ubbidirgli in tutto. I sudditi invece non sono soggetti ai loro superiori in tutto, ma soltanto in alcune cose determinate. (…) Così dunque si possono distinguere tre tipi di obbedienza: la prima, sufficiente per salvarsi, si ferma ad ubbidire nelle cose d’obbligo; la seconda, perfetta, ubbidisce in tutte le cose lecite; la terza, disordinata, ubbidisce anche nelle cose illecite”.
Ciò significa che l’obbedienza non è cieca e incondizionata, ma ha dei limiti. In caso di peccato, non solo mortale, ma anche leggero, avremmo non il diritto, ma il dovere di disubbidire. Ciò vale anche nel caso in cui ci fosse comandato qualche cosa di nocivo alla vita spirituale.
Ma chi ci dice che il precetto dei nostri superiori è illecito? Ce lo dice la nostra coscienza, che non è un vago sentimento dello spirito, ma il retto giudizio della ragione sulle nostre azioni; il giudizio ultimo su ciò che si deve fare o non fare. La coscienza non ha in sé stessa la propria norma, ma deve sottomettersi alla legge morale, fondata su quella divina. Il massimo atto di obbedienza che possiamo compiere è quello della nostra coscienza alla legge morale.
Per amore di Dio dobbiamo essere pronti a quegli atti di suprema obbedienza alla sua legge e alla sua volontà che ci sciolgono dai legami di una falsa obbedienza umana. Dio ci obbliga solo per santificarci e quando la legge mette a repentaglio la nostra santificazione noi abbiamo il diritto di opporci ad essa.
I martiri non obbedivano alle autorità dello Stato che imponevano loro di incensare gli idoli. E neppure ai genitori, ai figli, ai mariti e alle mogli, che chiedevano loro di fuggire il martirio in nome del bene familiare.
San Tommaso Moro era un leale servitore di Enrico VIII, ma non fece la sua volontà e non fece neppure la volontà della moglie Alice che negli ultimi colloqui lo supplicava: “Vuoi abbandonarci, me e la mia infelice famiglia? Vuoi rinunciare a quella vita nel nido domestico, che, ancora poco fa, ti piaceva tanto?”. Ma Tommaso risponde: “Per quanti anni, mia cara Alice, credi che possa ancora godere quaggiù di quei piaceri terreni che mi dipingi con un’eloquenza tanto persuasiva? – Vent’anni, almeno, se Dio vuole. – Ma, carissima moglie, non sei una buona negoziante: che è mai una ventina d’anni a confronto di un’eternità beata?”.

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